TELETHON, UNA TERAPIA CHE INGANNA IL CERVELLO PER FAR PASSARE L’ENZIMA
Ricercatori di Napoli dimostrano in laboratorio come superare la barriera che ostacola il trasporto di farmaci nel sistema nervoso
Un inganno a fin di bene. Come entrare in fabbrica col badge di un altro, ingannando il servizio di sicurezza, e poi, una volta dentro, mettersi a lavorare per migliorare il prodotto. Non è il resoconto di un curioso fatto di cronaca, ma quanto pubblicato su una importante rivista scientifica internazionale e inventato da un gruppo di ricercatori italiani. La scoperta, di fatto, riguarda una chiave d’accesso al nostro cervello che dà una nuova speranza ai pazienti affetti da sindrome di San Filippo, grave malattia neurodegenerativa di origine genetica. A descrivere questa nuova strategia sulle pagine di EMBO Molecular Medicine* è uno studio coordinato da Alessandro Fraldi dell’Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) di Napoli, condotto in collaborazione con il gruppo del direttore dell’istituto, Andrea Ballabio.
Detta anche mucopolisaccaridosi di tipo 3A, questa patologia è dovuta a un difetto ereditario in un enzima, la sulfamidasi, deputato allo smaltimento di un particolare tipo di zucchero, che con il tempo tende ad accumularsi e a danneggiare diversi tessuti, specialmente quello nervoso. Questi pazienti vanno incontro infatti a un grave e rapido deterioramento mentale già a partire dai primi anni di vita, con disturbi del comportamento e del sonno, progressiva perdita delle capacità motorie, problemi di comunicazione, convulsioni. Al momento non esiste alcuna terapia efficace, ma soltanto una serie di interventi sui sintomi che si possono applicare per tentare di migliorare la qualità di vita di questi pazienti. Nei pazienti affetti da questa grave patologia genetica non basta somministrare dall’esterno l’enzima mancante prodotto industrialmente, perché il cervello è protetto da una sorta di barriera naturale, chiamata emato-encefalica, che come una sentinella seleziona con attenzione le sostanze che possono arrivare alle cellule nervose, bloccando quelle che riconosce come estranee. Una difesa eccezionale in condizioni normali, ma un grosso ostacolo da superare se si devono trasportare molecole terapeutiche direttamente nel cervello.
I ricercatori napoletani, però, non si sono persi d’animo e hanno provato ad aggirare il problema con una tecnica altamente innovativa in grado di “convincere il cervello” ad accettare il farmaco. «Abbiamo inserito il gene codificante per la versione corretta della sulfamidasi in un virus adatto alla terapia genica, che sappiamo essere sicuro e con una “simpatia” particolare per le cellule epatiche» spiega la prima autrice del lavoro, Nicolina Cristina Sorrentino. «Una volta iniettato nel sangue, infatti, questo vettore virale entra preferenzialmente nel fegato, organo che sappiamo funzionare come un vero e proprio serbatoio di enzimi per il resto dell’organismo. La particolarità del nostro metodo sta nel fatto che al gene terapeutico sono stati aggiunti due “pezzetti” speciali: uno che aumenta la secrezione dell’enzima nel sangue da parte del fegato, l’altro che rende l’enzima riconoscibile da parte della barriera emato-encefalica e ne consente così l’accesso al sistema nervoso: in pratica abbiamo sfruttato il “biglietto d’ingresso” di un’altra proteina che normalmente entra nel cervello».
In questa versione “riveduta e corretta” dai ricercatori del Tigem la terapia enzimatica sostitutiva si è dimostrata in grado di raggiungere il cervello nel modello animale della sindrome di San Filippo: non solo non si sono registrati effetti tossici, ma si è riscontrata una capacità dell’enzima di raggiungere le cellule del cervello, esercitare la sua normale azione detossificante e soprattutto migliorare significativamente i sintomi della malattia, anche dal punto di vista comportamentale. «A otto mesi di distanza dalla prima somministrazione, i risultati sono molto incoraggianti e ci fanno pensare che questo approccio possa essere non solo efficace, ma anche stabile nel tempo» commenta Fraldi. «Inoltre, aver dimostrato di poter superare in modo mirato la barriera protettiva del sistema nervoso offre uno spunto interessante anche per molte altre malattie neurodegenerative in cui finora non si era riusciti a somministrare una terapia se non dando dosi molto alte, che però possono in ultima analisi risultare tossiche».